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LE LESENE RICAMATE DELLA CHIESA DI SAN GIUSEPPE DELLA MADRE DI DIO IN MONCALIERI E LA LORO CREATRICE, SUOR M. ADEODATA DEL SS. SACRAMENTO

di Maria Teresa Reineri
Estratto da: « Studi Piemontesi », dicembre 2010, vol. XXXIX, fasc. 2
CENTRO STUDI PIEMONTESI
CA DË STUDI PIEMONTÈIS
TORINO
Il monastero di San Giuseppe della Madre di Dio in Moncalieri sorge all’ombra del castello sabaudo sul pendio che da questo degrada a sud-est verso la piana di Testona.
Vi ha vita la spiritualità di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce che le suore carmelitane scalze custodiscono da più di trecento anni nel silenzio della clausura, pur accogliendo nella loro mirabile chiesa i fedeli laici per le funzioni festive.
Ignoto a molti, me compresa, ci capitai quasi per caso alcuni mesi or sono, invitata a visitare il luogo che conserva dal 1988 l’urna di suor Maria degli Angioli, la beata carmelitana torinese che donò cristiana speranza e conforto di preghiera alle molte lacrime di Anna Maria d’Orléans.
Vi trascorsi un paio d’ore di stimolante colloquio con suor Imelda che mi si dimostrò subito sorella e che m’affascinò per la competenza con cui custodisce e affina la memoria del convento..
Il monastero possiede due tesori fuori dal comune: il primo é un fac-simile della Sindone datato 1634 (sul cui autore gli studiosi del Sacro Lino dibattono da tempo) proveniente probabilmente dal soppresso convento carmelitano di Santa Cristina in Torino, di perfetta somiglianza con l’originale; il secondo, di particolare valore artistico, è costituito da un insieme di paramenti preziosi tra cui spiccano delle tappezzerie in seta, dipinte e ricamate, confezionate per elevare, se possibile, a maggior gloria di Dio il già sontuoso decoro della chiesa creato da Michele Antonio Milocco.
Con un barlume di gioia a illuminare la luce serena dei suoi occhi, suor Imelda parlò per appagare il mio attonito stupore; mi spiegò che gli studiosi dell’arte del ricamo chiamano le tappezzerie risalenti alla metà del Settecento “lesene ricamate”, che esse furono esposte nel 1963 nella grande Mostra del Barocco Piemontese e analizzate con un saggio critico nel terzo volume del relativo catalogo. Aggiunse che erano state utilizzate in loco nell’anno 2003 durante la celebrazione del trecentesimo anniversario della fondazione del monastero e che, custodite oggi in un luogo sicuro lontano dal monastero e protette da carte di speciale composizione, mantengono uno stato di conservazione perfetto.
Essendo irrealizzabile il desiderio, ardito, di poterle vedere, m’informai se fossero state requisite nel 1802 a seguito del provvedimento del governo francese che abolì le congregazioni religiose confiscandone i beni. Poiché circostanze fortunate permisero alle suore di trasformarsi in educatrici e gli edifici divennero quasi subito convitti per giovani allieve, non ci furono sottrazioni degli arredi della chiesa né del monastero, mi garantì suor Imelda. E aggiunse: “Non sarebbe stato facile farle uscire di nascosto tenendo conto del numero e delle dimensioni delle lesene!”
L’ora della preghiera essendo imminente, suor Imelda mi congedò con un augurio di pace.
Nei giorni successivi analizzai i verbali di “apposizione dei sigilli” e “dissequestro” relativi al convento delle carmelitane di Moncalieri contenuti nelle carte del “Governo francese”, e constatai che l’elenco, molto sommario, dei beni non fa alcun esplicito riferimento alle tappezzerie; l’unica generica annotazione indica l’esistenza di “paramenti ed arredi della sacrestia”. Suor Imelda non s’ingannava: ne dedussi che s’erano salvate perché non avevano impressionato nessun “colto” funzionario!

Il saggio sulle “lesene ricamate” nel catalogo della Mostra del Barocco, è illustrato da una fotografia che ne fa, purtroppo, solo intuire l’eccezionale qualità; vi si specifica che sono in numero di diciotto, che ciascuna misura metri 4,42 di lunghezza e metri 0,60 di larghezza e che, inoltre, esistono altrettanti pezzi pure ricamati per coprire la base dei pilastri.
Se la fotografia che accompagna il saggio è modesta, le parole confermano il giusto vanto di suor Imelda:

“Le lesene in finissima seta hanno disegno a imitazione di colonne tortili poggianti su alti basamenti e inghirlandate di fiori; il ricamo é in sete policrome (rosso, rosa, azzurro, verde, giallo, ocra, bruno) a punto passato, punto piatto e altri. Pensate quale ornamento in occasioni solenni, sono appese in alto come illusivo prolungamento delle architetture della parte inferiore della chiesa. Ciò spiega il progressivo restringersi verso l’alto delle colonne figurate sulle lesene: restringimento inteso a creare un ritmo ascensionale tanto evidente quanto armoniosamente graduato.”

La descrizione dei manufatti è preceduta da un’attenta analisi degli stessi nell’ambito dello studio sul pittoricismo applicato al mobilio che trionfò in Piemonte con il ricamo bandera in pieno Settecento.
Scrive lo studioso:

“La data presumibile di esecuzione, intorno al 1750, concorda perfettamente con il pittoricismo dell’esuberante decorazione floreale e con il sentito gusto scenografico del paramento visto nel suo complesso. Non si deve cercarvi un’imitazione architettonica, ma anzi la trasformazione dell’ architettura in quadro spettacolare. Sorprendente anticipazione di quello che vedremo vent’anni dopo in una scena del teatrino di Drottningholm: il motivo bibienesco delle colonne disfarsi tra ghirlande e racemi fioriti e addolcirsi in tenera arcadia, in pastorale incantamento”.

E conclude:

“Si é di fronte ad un uso del ricamo come “pittura teatrale”, risultato a cui si poteva addivenire solo in Piemonte dove le varie forme d’arte erano tutte collegate da un’intima corrispondenza di pensieri creativi, da un gusto rigoroso e coerente anche nei più imprevedibili divertissements:”

Lo studioso non avanza nessuna ipotesi su chi potesse aver ideato il progetto decorativo né precisa che esso annovera altre dieci lesene in seta uguali per dimensione a quelle presentate in mostra, ma i cui festoni, identici nell’armonia di forme e tinte, sono solo dipinti, privi del ricamo che ne vivifica l’aspetto.
Le lesene in seta sono complessivamente ventotto, tante quante quelle in muratura della chiesa e, mi spiegò suor Imelda, quelle sprovviste di ricamo sono usate per la decorazione degli altari laterali, ponendomi in conclusione un interrogativo: “ Chi ne sarà stato il pittore?”

Leggendo il già citato libro sul Carmelo, una nota a fondo pagina, che attinge alla raccolta manoscritta dei Brevi Profili Biografici conservata nell’archivio del monastero, attribuisce a Suor Maria Adeodata del SS. Sacramento con l’aiuto di altre due consorelle la realizzazione del lavoro d’ago e precisa che, in alto, su una lesena sono ricamati tre piccoli cuori per ricordare l’amore con cui le tre monache lo eseguirono.
Sempre la stessa fonte manoscritta spiega che suor Adeodata, azzoppata da una slogatura male o punto curata e costretta a muoversi solo con le stampelle, “lavorò molto per la sacrestia”; puntualizza, inoltre, che la suora, al secolo, aveva nome Antonia Maria Ruscalla, era nata a Torino nel 1690, ed era stata figlia spirituale del beato Sebastiano Valfré che l’aveva guidata all’ingresso in clausura l’8 giugno 1709 e alla travagliata professione solenne dell’anno successivo (2 luglio 1710).
Il nome Ruscalla mi suonò ben conosciuto: una famiglia Ruscalla, nobile ma non infeudata, entrata in stretta parentela con la discendenza del conte e protomedico ducale Giovanni Francesco Fiochetto, fu chiamata, in tempi successivi rispetto ai Castellamonte, a godere dei beni della seconda primogenitura istituita dal suo testamento.
Già mi era noto che nella generazione dei Ruscalla, vivente nell’ultimo quarto del Seicento, era stata battezzata, nel 1682, una bambina con i nomi di Antonia e Margherita, il primo per ricordare la figlia di Amedeo di Castellamonte spentasi all’età di ventinove anni l’anno precedente, il secondo in onore della contessa Margherita Valperga che la teneva a battesimo. Con suor Adeodata differivano parzialmente il nome e totalmente la data di nascita.
Abusai della pazienza infinita del canonico Giuseppe Ferrero, parroco di San Tommaso a Torino, per rivedere attentamente gli atti di nascita dei Ruscalla del tempo presenti nei registri della parrocchia.
Ebbi la conferma di sei nascite da Carlo Antonio e Clara Teresa “jugali Ruscala” e precisamente tre femminili (Antonia Margherita il 20 agosto 1682, Anna Catterina Battista il 19 marzo 1684, Maria Teresa Irene il 10 giugno 1690) e tre maschili (Carlo Giuseppe il 19 febbraio 1687, Ottavio il 24 novembre 1692, Giovanni il 30 marzo 1697). Morirono in tenera età Anna Catterina, Maria Teresa e Giovanni. La famiglia viveva all’inizio in cantone San Gregorio nell’antica residenza del protomedico Fiochetto divenuta patrimonio dei Castellamonte e poi degli eredi Carroccio, ma si trasferì nel 1686 nell’isola San Pietro in una casa di proprietà sempre sotto la parrocchia di San Tommaso.
Il capofamiglia, l’avvocato Carlo Antonio Ruscalla, godeva a corte d’un impiego importante (controllore della casa di Madama Reale Giovanna Battista di Savoia Nemours) che gli consentiva il mantenimento di altolocate frequentazioni sociali già allacciate dai suoi antenati.
Quando il 1713 portò la pace nello stato sabaudo, la famiglia, divenuta nel frattempo Ruscalla-Fiochetto e cresciuta per matrimoni e nascite, si trasferì, in una nuova abitazione, inizialmente in affitto, sotto la parrocchia di San Dalmazzo, nell’ingrandimento di Torino verso porta Susina voluto dal re Vittorio Amedeo II, dove nel 1720 morì Carlo Antonio.
Per poter identificare in modo certo Antonia Margherita con suor Maria Adeodata dovevo trovare un documento chiarificatore. Mi soccorse la fonte inesauribile delle Insinuazioni di Torino, dove reperii due carte inattaccabili:
– L’atto di costituzione della “dote di elemosina di Antonia Margherita Ruscalla” del 31 maggio 1710 .
Vi compaiono associati i nomi di Antonia Margherita e suor Maria Adeodata, e sono spiegate le difficoltà del padre della novizia a pagare, in tempi di guerra, la somma necessaria al completamento della dote; vi é inoltre esplicitamente nominata la “pia persona” che anticipò al Ruscalla, con un prestito di due anni all’interesse del 5%, le mille lire richieste dal monastero.
– I testamenti dettati da sua madre, Clara Teresa Ruscalla, nel 1728 e 1734.
In entrambi la donna fa un legato alla figlia suora di una piccola somma, cinquanta lire, per i suoi minuti bisogni, ma solo nel primo esplicitamente scrive che esso é:

a favore della figlia Antonia Margherita ora suora carmelitana scalza a Moncalieri con il nome di suor M. Adeodata del SS. Sacramento.

Stabilire in modo inequivocabile l’identità della monaca mi sembrò importante per poter analizzare con maggior consapevolezza le qualità artistiche di chi aveva ideato le lesene. Se non fa meraviglia che la perizia tecnica con cui furono realizzati i ricami sia appannaggio di una donna per di più suora, non sembra invece attribuibile ad una pur eccelsa manualità l’invenzione dell’apparato decorativo nel suo complesso realizzato inizialmente con la pittura su seta
La tessitura cromatica dell’intreccio floreale che ha la leggerezza del cesello, la varietà dei fiori riprodotti (rose gigli garofani etc.) dal significato liturgico ben preciso e da interpretarsi in chiave simbolica secondo i dettami della Chiesa, sarebbero perciò opera di un “ignoto” pittore; né va dimenticato l’impianto prospettico delle colonne tortili su cui si avvolgono i festoni fioriti.
Nell’archivio del convento si legge che “suor M. Adeodata fece lei quasi tutta la tappezzeria, il pulpito e altri vari ornamenti”; il verbo usato mi sembra permetta di attribuire interamente alla suora il progetto delle lesene e la sua realizzazione pittorica, escludendo l’intervento di un’altra mano sconosciuta che non é mai menzionata, neanche nelle note di spesa, mentre le stesse fonti non tacciono la collaborazione di due consorelle nel successivo lavoro d’ago.
Tutto ciò resterebbe una semplice congettura se non venisse in qualche modo suffragata dal dato anagrafico della suora, fornendoci un’indicazione che mi pare interessante: Antonia Margherita Ruscalla aveva probabilmente nel suo DNA la vena artistica del nonno materno, l’apprezzato pittore Bartolomeo Caravoglia.
Non mi é consentito ipotizzare, in mancanza di riscontri documentari, che Antonia Margherita potesse aver goduto di una vera istruzione artistica, sebbene non sia da escludere una breve frequentazione (il nonno morì quando la bambina aveva nove anni) dello studio del pittore che era ubicato, dal 1686, al piano terra di casa Ruscalla in cui viveva da quella data il Caravoglia stesso con le tre più giovani figliole.
Le informazioni reperite sulle Insinuazioni mi permisero di seguire il destino di due, ma non dell’ultima Caravoglia che forse né si maritò né si fece suora. La difficoltà di poter effettuare lunghe consultazioni nei registri parrocchiali mi ha finora impedito di trovarne la data di morte, anche se un’ipotesi, che non mi pare peregrina, me la farebbe collocare appena prima dell’entrata in convento della nipote Antonia Margherita. La vocazione tardiva mi pare, infatti, abbastanza inusuale per i tempi e inspiegabile l’errore di ben otto anni nella data di nascita registrata in convento; la morte della suora avvenuta nel 1760 all’età di settantotto anni illumina sul motivo per cui il lavoro di ricamo non fu completato.
Come ultimo campo d’indagine (ma non ne ho la competenza) sarebbe interessante verificare se nell’opera di Antonia Margherita Ruscalla sono individuabili influenze artistiche anche imputabili alla conoscenza delle scenografie che, a cavallo tra Seicento e Settecento, furono inventate da Ferdinando Galli Bibiena e dipinte dal suo scolaro Pietro Giovanni Abbati per il teatro Regio di Torino.

 

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