«Mi avete ingannata, Dio mio»
Tentata dal diavolo, consolata da DioEbbe inizio per suor Maria un durissimo periodo di prove spirituali, che si protrasse per quattordici lunghi anni. Tutte le anime chiamate ad una stretta unione con Dio, per quanto si sforzino di domare se stesse e purificarsi, ordinariamente non vi giungono senza passare attraverso le pene più dolorose. È così che il Signore le purifica, come l’oro nel crogiolo. Suor Maria degli Angeli, elevata già ad un alto stato di perfezione allorché stendeva le sue memorie – le scrisse infatti nel 1686 -, rilesse la sua vita alla luce delle sue elevate esperienze mistiche e, come tutti i santi, guardò con sgomento alle infedeltà degli anni passati, confessandole con schiettezza, non cercando attenuanti, ma esponendole con il suo stile icastico e concreto. Tipico – biblico – è il suo lamentarsi col Signore che le sottraeva ogni dolcezza nella preghiera subito dopo la sua professione religiosa: «Mi avete trompata, Dio mio! Quando ero in libertà mi donavate delle consolazioni e dolcezze; ora che son ligata, non mi date che amarezze!».
Lineare e precisa la descrizione di quegli anni, di cui ci dipinge le varie incrinature. Prima di tutto confessa la sua mancanza di confidenza nei superiori, come s’è visto sopra. E poi subito la tiepidezza e lo scarso fervore nell’osservanza religiosa: «Mancavo spesso alli atti di comunità; mostravo di aver male per mangiar carne e per essere levata dalli atti di osservanza». Ma ammette di averlo fatto solo una volta!
«Non tenevo fede nell’obbedire… Lasciavo la lettura spirituale per tema di trovare qualche cosa che mi toccasse… L’orazione, poi, la fuggivo quanto potevo…». Ma eccola aggiungere che, quando le capitava di sentirsi più attratta dal Signore e di provare nella preghiera qualche, «tenerezza o dolcezza straordinarie», faceva il possibile per distrarsi, dicendo al Signore: «Lasciatemi stare, ché non mi curo delle vostre carezze! Quando mi sarò data a Voi da dovero, bisognerà che muti vita».
A queste colpe si deve aggiungere, ci ricorda, la continua ricerca di se stessa e l’innato desiderio di primeggiare: «Mi dava pena il non essere amata e vedere altre più amate di me… Ero facile a scusarmi… negligente nel praticare la virtù… mi risentivo internamente per bagattelle… non ricevevo le correzioni con umiltà, ma con “cagnina” (stizza) e qualche volta facendo il necho (broncio).. Ho desiderato la morte a una persona, ma non con odio, ma per nostro bene». E via ancora con tutto un elenco di altre colpe e negligenze che dovrebbero dimostrarci quanto fosse una «religiosa mediocre». Ma improvvisamente suor Maria eleva il tono e se ne esce in una vibrante esclamazione al Signore: «Con chi pretendevo trattenermi, o dolce Amor mio? … Con me stessa, col mio, amor proprio. Non volevo negarmi un minimo gustarello… insomma volevo fare del mio corpaccio un idolo e poi idolatrarlo, e rifiutavo di stare con Voi, dolcezza di paradiso. Oh Dio, quante vorrei aver lacrime di sangue per piangere vita sì abominevole!… Più mi sono straccata io che non vi siete straccato voi, a guisa di buon Pastore, cercando la povera pecorella smarrita, e con paterna carità mi portaste sulle vostre amorose spalle alla vostra dolce gregge».
Un sogno, narrato con vivezza di particolari, segna una svolta decisiva nella vita di suor Maria degli Angeli. Le pareva che una religiosa la prendesse per mano e la conducesse a un bivio donde si biforcavano due strade: una «tutta triboli e spine», che finiva in un bellissimo giardino «con tutte le delizie immaginabili»; l’altra «piana e facile e piena di contenti e ricreazioni»che si buttava in «un gran precipizio». La religiosa l’ammoniva: «Li sette anni son passati, hai da mutar vita». Ancora una volta emerge il temperamento forte e – qui – ostinato della giovane monaca: «In quel ponto mi svegliai un poco intimorita, ma come ero di naturale poco pauroso, dissi tra me: «Se questo è vero, ritorni un’altra volta!». Infatti il sogno ritornò e si ripeté per altre due volte consecutive. Allora Marianna si diede per vinta e si gettò «a piedi del mio crocifisso, versando molte lacrime di dolore d’averlo offeso, che mi pareva che il cuore si dividesse in due parti». Era la fine del 1684. La Beata contava solo ventitré anni e fu allora, secondo il suo primo biografo, P. Elia di S. Teresa, che uscì dal periodo di purificazione passiva del senso per essere introdotta nella purificazione dello spirito che durò altri sette anni terribili. Noi potremmo seguirli passo passo attraverso le relazioni e le lettere della Beata al suo direttore spirituale, P. Lorenzo Maria di S. Michele, e al suo provinciale, P. Luigi di S. Teresa, che le ingiungevano di descrivere dettagliatamente quanto le accadeva in ordine alla vita spirituale.
Le ragioni di questo incredibile travaglio dello spirito sono quelle che espone S. Giovanni della Croce a proposito delle anime chiamate da Dio ad altissima perfezione: «Esse vengono sottoposte a tutte queste sofferenze affinché si purifichino secondo la parte spirituale e quella sensitiva… Questi travagli son necessari… perché, come un eccellente liquore si pone solo in un vaso robusto, preparato e pulito, così questa altissima unione può verificarsi soltanto nell’anima fortificata da travagli e tentazioni, e purificata da tribolazioni, tenebre e angustie, giacché per mezzo delle une viene purificato il senso e per mezzo delle altre si raffina, si purifica e si dispone lo spirito».
Davvero terribile fu la purificazione cui Marianna venne sottoposta dal Signore: vessazioni diaboliche, aridità spirituale, tentazioni contro le osservanze proprie della vita religiosa e in particolare contro la carità: «Le rabbie interiori che provo sono grandissime e non posso credere che venghi dal demonio, ma mi pare che venghi da me, per essere io molto maligna, incitandomi con odi così terribili contro di me stessa che mi farei a pezzi. Altre volte mi pare d’esser un cane arrabbiato e darei – anche così mi pare – delle dentate a tutte quelle che incontrassi, e questo con mio gran gusto». E ancora: «Le rabbie che provo in trattar nostra Madre mi pare che non potrei numerarle: mi portano a mancarli il rispetto e la riverenza e a dirli parole brusche». Scriveva tuttavia al direttore spirituale: «Non manco di eseguire il comando impostomi da V. R. (Vostra Reverenza) di andarmi da lei acciò m’umilii, riportando da questa umiliazione la vittoria del mio nemico, e quella che prima mi pareva una lupa rabbiosa, divengo un agnellino, e così quieta, con tanta pace, che mi stupisco, parendomi un sogno quello che ho passato». Eppure – come risulta dalle testimonianze ai Processi di beatificazione e da quanto riferisce il primo biografo, appariva alle consorelle come un angelo di carità, di bontà, di pazienza, di amore per il Signore.
Dal 1682 cominciarono le estasi frequenti, che spesso avvenivano in pubblico, con grande confusione di lei, che con la vivida consapevolezza della sua povertà ne restava profondamente umiliata.
«Mi pare d’aver molti peccati, e venendo poi ad uno in particolare, non lo so trovare… Incominciando poi la confessione, spariscono tutti quelli gran peccati, senza che ne sappia trovar uno», scriveva al direttore spirituale lontano. E aggiungeva, uscendo in una di quelle sue esclamazioni cosi spontanee e caratteristiche: «Oh, quanto m’affligge che questo mi avvenga per castigo di Dio, facendo meco come fa con quelli grandi peccatori che non comprendono il loro misero stato e alla fine si trovano alla morte senza potersi confessare né aver dolore dè peccati». Continuando nella enumerazione delle sue tentazioni, ella scriveva circa la gola: «Mi vengono così impetuose voglie di cibi preziosi che mi sento impazientire», al punto da essere tentata di consumare gli avanzi delle inferme «con pretesto di carità», perché non fossero rimproverate di non aver mangiato. E, circa la carità, commentava: «Se le mie sorelle mi vedessero il cuore sì maligno verso di loro, fuggirebbero ben lontano da me…». E concludeva: «Con l’aiuto di Dio tengo tutto sotto cenere, ingannandole con farmi tener per buona, e sono la più pessima di tutte le creature».
A queste sincere e umili confessioni la Beata faceva seguire altre pagine, davvero impressionanti, in cui confessava le tentazioni più sottili del Maligno che la spingeva alla disperazione, mentre ella raccoglieva tutte le forze dell’anima per gridare a Dio la sua fiducia.
«Mi pare che lo provoco a maggior sdegno ed ira contro di me. Mi pare che non troverei altro sollievo in queste pene che il darmi la morte con bever un poco di verderamo, dicendo tra me stessa: – bene, è meglio morire una volta che vivere morendo mille – ». Ed esemplificava alcuni interventi diretti del demonio per indurla alla disperazione. Una volta, mentre usciva dal coro: «mi si fece davanti il demonio e mi disse: “Piglia quella corda e vatti a impiccare, ché già sei dannata. Altro non puoi fare che sia maggior gloria di Dio che il levarti la vita”».
In altri casi il Maligno la terrorizzava con strepiti e ruggiti, o rendendole insopportabile il peso della cesta con cui portava la cena alle inferme, o tormentandola mentre faceva la disciplina di regola, o apparendole sotto le sembianze del direttore spirituale per invitarla a dargli una volta il consenso, «ché con questo non mi saria mai più tornata la tentazione». Il demonio, infatti l’assaliva con pensieri e fantasie disoneste che la ferivano profondamente: tentava di convincerla di avervi acconsentito e di aver offeso il Signore.
«Quello che più mi tormenta – scrive – è l’assistenza continua, sentendolo – e anche qualche volta me lo vedo – dalla banda sinistra in figura sì abominevole che mi fa tutta spaventare e tremare, e subito mi sento agitare dalle tentazioni con tanta furia, che mi pare che tutto l’inferno si sollevi contro di me». Ma il Signore un giorno le dice: «Di che temi? Non temere! Non mi hai offeso! Non sono bastante per consolarti? Spera in me che posso tutto… Figlia mia, quanto più ti farai coraggio e violenza, più crescerai nel mio amore».
A rendere più dolorose le rabbiose angherie diaboliche si aggiunge la terribile aridità di spirito cui si è accennato prima: «E tanto più sento questi travagli, quanto più mi trovo più arida nello spirito e abbandonata mi pare d’esser da Dio, di sorte che mi pare che non ho più di creatura che la figura, e di religiosa il santo abito, nel resto sono una bestia e un diavolo in carne… All’orazione sono così arida e secca che mi pare d’essere come un legno… O padre mio, quanto sono maggiori queste pene dalli altri travagli, perché non li so dire, né trovo parole a spiegarmi, né trovo chi mi sappia dar aiuto né conforto: solo trovo che mi giova quello che mi dice il mio confessore, cioè che mi abbandoni nelle mani di Dio: e questo stento a farlo».
I suoi sforzi tuttavia erano sempre premiati perché, «Provo… una grande assistenza di Dio verso di me». Il Signore la confortava attraverso locuzioni interiori e particolari visioni. Sappiamo che, molto significativamente, si sentì dire il primo venerdì di marzo del 1685: «Nelle tue pene ti ho eletta, non dubitar, sarai mia diletta». E il giorno di Pasqua successivo: «Ti prometto longa guerra, ma vittoriosa, se sarai constante nell’amarmi e umile di cuore».
Quanto alle visioni di quel periodo, decisiva fu quella del 14 settembre 1685: «Ritrovandomi molto travagliata dalli miei soliti esercizi, andai all’orazione tutta afflitta e sconsolata. Appena l’ebbi incominciata, Nostro Signore, per sua misericordia, mi tirò a sé in un modo straordinario, unendomi tutta a sé. Quello io facessi non lo saprei dire, se non che il gusto e la consolazione era grande, e nell’istesso ponto conoscevo che il buon Gesù voleva che io lo rinunciassi e li chiedessi da patire. Ma il mio povero naturale tremava e l’apprendeva molto, ma non potendo far più resistenza li dissi: “Dolce amor mio, vi rinuncio questi gusti e consolazioni perché così piace a Voi, e vi prego unirmi a Voi per mezzo della croce e patimenti”. E subito Nostro Signore mi presentò una gran croce e mi disse: “Figlia, ti basta l’animo di abbracciarla?” Io li dissi: “Sì, Signore, con il vostro aiuto… Ma Voi non vi siete sopra la croce!”. Mi rispose: “È in segno che da ora in poi non mi sentirai né gusterai sensibilmente, ma ti parerà sempre d’esser abbandonata. Le tue tentazioni cresceranno sempre di più, le tue passioni che sin ora sono state addormentate, ora le sentirai nel suo maggior vigore e ti tormenteranno come tanti cani arrabbiati, e quello che più ti affliggerà è il parerti sempre in mia disgrazia. Ma sta’ forte in amarmi, umile di cuore e soggetta ai tuoi superiori”».
Effetto immediato della visione fu «Un desiderio così grande d’abbracciarmi con la croce, che averei andato gridando con il buon sant’Andrea: – Oh buona croce, oh dolce croce! -, tanto era il giubilo del mio cuore, restando il mio interno quieto e senza veruna pena».
Dopo la narrazione di un’altra grazia, in cui il Signore si rivelava «sempre più pronto in esercitare la sua misericordia che la sua divina giustizia», la Beata concludeva con un sincero e umile riconoscimento della bontà divina: «Queste grazie mi danno forza e fortezza per superare maggiormente le zuffe del nemico. Oh, quanto posso poco da me stessa, se non fossi assistita dalla grazia divina, nascendomi un bassissimo concetto di me stessa, e mi dà gran pena quando vedo che le mie sorelle tengano qualche buon concetto di me, e vorrei mi fosse lecito scoprirli le mie iniquità, acciò restassero disingannate. Insomma, senza allongarmi tanto, mi trovo migliorata in questo poco tempo, che senza paragone mi vedo esser cangiata come dalla notte al giorno; e tutto questo miglioramento lo riconosco da quella infinita Bontà, versando sempre abbondantissime le sue misericordie sovra di me, benché degna di mille morti e meritevole di mille inferni».
Qui termina l’Autobiografia propriamente detta, cui seguono alcune brevi relazioni di grazie straordinarie.